Quattro aerei ditorrati: due andarono a schiantarsi contro le Torri Gemelle,uno contro il Pentagono, il quarto non raggiunse l’obiettivo
11 settembre video inedito
Roma, 11 settembre 2016 – Quindici anni fa gli Stati Uniti colpiti al cuore. Era l’11 settembre del 2001, alle 8.45 e alle 9.03 (ora locale), due aerei partiti da Boston diretti a Los Angeles dirottati da terroristi di Al Qaeda e fatti schiantare, uno dopo l’altro, sulle torri gemelle del World Trade Center di Manhattan.
Ma non era finita: la grande Mela era ancora in preda al terrore, alle 9.43 un terzo aereo dirottato viene fatto precipitare sul Pentagono a Washington.
Un quarto finirà in un campo in Pennsylvania prima di raggiungere il suo obiettivo grazie all’intervento di passeggeri ed equipaggio che provarono a fermare i dirittatori.
Le vittime furono quasi 3mila, ma la ferita aperta quel giorno non si è mai rimarginata.
Queste sono le principali cifre degli attentati alle Torri Gemelle:
– 19 i dirottatori
– 2.974 i morti, di cui 2.603 a New York, 125 al Pentagono e 246 tra passeggeri e membri dell’equipaggio dei 4 aerei dirottati
– 6.291 i feriti
– 90 i Paesi di origine delle vittime
– 17.400 le persone che si trovavano all’interno delle Torri gemelle al momento dell’impatto dei due aerei
– Almeno 200 le persone morte lanciandosi dal World Trade Center in fiamme
– 411 i soccorritori morti, tra cui 341 pompieri
– Circa 1.600 i corpi che è stato possibile identificare
Anche nella Tragedia non si è perso la dignità
È MORTA MARCY BORDERS, LA ‘DUST LADY’ CHE L’11 SETTEMBRE SI SALVÒ DISUBBIDENDO AGLI ORDINI DEL SUO CAPO – SECONDO LEI, IL TUMORE CHE L’HA COLPITA NEL 2014 ERA CONSEGUENZA DELLE POLVERI INALATE
Quindici anni dopo, Il dovere della politica
Quindici anni fa siamo entrati nell’era del terrore . E non ne siamo più usciti. Scorrendo le immagini che in questi giorni ci giungono dalla Siria, dallo Yemen, dalla Libia (solo per limitarci ai teatri a noi più vicini) la considerazione è del tutto evidente e per nulla consolatoria.
L’immensità dell’infamia compiuta 11 settembre a New York e Washington resterà nella memoria collettiva.
Da quel gesto, e dalle reazioni che ne sono scaturite , ci ritroviamo ancora imprigionati e, con noi, ne sono imprigionati popoli che con l’atto criminale e di guerra attuato dai seguaci di Osama bin Laden non avevano nulla a che fare. Eppure, è difficile opporsi all’evidenza che persino quanto sta oggi accadendo in Siria, in Iraq o in Yemen non derivi anche dal sangue versato in quella mattina dell’11 settembre 2001.
Come sappiamo gli Stati Uniti, e l’intera comunità internazionale, assunsero quel crimine come «un atto di guerra» al quale reagirono, con la benedizione dell’Onu, portando la guerra in casa di chi Osama bin Laden lo aveva protetto e rifiutava di consegnare.
A quella guerra, che ancora oggi si trascina, seguì l’ invasione dell’Iraq, la quale contribuì a disperdere e diffondere ben oltre le periferie islamiche dell’Afghanistan e del Sudan la malapianta qaedista, di cui il Califfato jihadista rappresenta l’odierna mutazione genetica.
Nell’arco temporale che va dagli attentati alle Twin Towers e al Pentagono alla proclamazione del Califfato jihadista è racchiuso il tracollo del vecchio ordine mediorientale, l’illusione delle primavere arabe, l’affermazione delle nuove potenze regionali rivali di Arabia Saudita e Iran, oltre alle migliaia di morti e ai milioni di sfollati e profughi che sono diventati il panorama permanente di questo scorcio di millennio.
Mentre ancora il fumo e la polvere degli attentati dovevano finire di posarsi, in tanti si interrogarono se le stragi avrebbero aperto una nuova epoca di conflitto, dopo la lunga pace dominata dall’equilibrio del terrore sovietico-americano.
La risposta è sotto gli occhi di tutti. E se non c’è dubbio che i troppi errori compiuti dopo l’11 settembre abbiano contribuito ad alimentarla, è difficile negare, oggi, che quella così sanguinosamente recapitata da Osama bin Laden fu una dichiarazione di guerra: la volontà di rompere con qualsiasi mezzo un “ordinine” ritenuto ingiusto e insopportabile la cui sopravvivenza garantiva il sostegno ai regimi “apostati” del mondo islamico (e qui è il suo carattere di guerra civile interna alla Umma). Allora, sembrava difficile essere in guerra contro un’entità non statuale e non territorializzata come al-Qaeda; oggi al-Baghdadi ci ha graziosamente tolto dall’imbarazzo, dando vita a una concezione neo-statale (e non post-statale) della politica e della guerra che sopravviveranno a lungo.
Sembrano lontani gli attentati qaedisti e il mondo in cui avvennero, almeno tanto quanto sono vicini, oppressivamente vicini, quelli di Parigi, Bruxelles, Nizza e i prossimi che inevitabilmente punteggeranno questi anni.
Sembrano lontane, persino nello spazio oltre che nel tempo, le stragi di Londra e Madrid, ancora una volta ispirate da gruppi terroristici islamisti.
Eppure, la continuità è così spaventosa che non vogliamo neppure vederla, così come è difficile intravedere la fine di un’epoca che le parole, da sole, non possono chiudere.
Sta invece alla politica, a un suo ritorno dall’esilio in cui l’abbiamo condannata convinti che imprese belliche, consumismo e appartata spiritualità “bastassero” all’umano, tentare di rispondere alla sfida che da 15 anni stiamo perdendo.
Il terrorismo islamico del Califfato è un’ostilità generalizzata, polimorfa e illimitata. il Califfato ha fatto risorgere l’essenza della politica, cioè la proclamazione fondatrice di un’eccezionalità senza termini di paragone». Dove sono le nostre risposte politiche? Dove le nostre proclamazioni? O crediamo davvero che all’aberrante maestosità, alla iperpoliticità sanguinaria che al-Baghdadi ci sbatte violentemente in faccia sarà sufficiente replicare tirando bombe a casaccio, mentre continuiamo a farfugliare qualche vetusto concetto liso dal tempo, tanto rispettabile quanto inefficace?
Alla politica, al dovere della buona politica, non si sfugge.
Se non altro, il tramonto delle illusioni mercatistiche che dal 2008 stiamo vivendo dovrebbe aiutarci a comprendere che questa semplice, eterna verità non rappresenta una condanna, ma la sola speranza umanamente possibile.