La terribile vicenda di Samam ci riguarda tutti: donne, maschi, politici, operatori dell’integrazione culturale, psicologi, sociologi, filosofi, società civile. Samam muore per aver rifiutato un matrimonio forzato. Una volta anche da noi i matrimoni venivano non proprio combinati ma pilotati in base a considerazioni di ordine economico, affaristico, di alleanze familiari e patrimoniali. Era anche in uso cercare di accasare una figlia con un buon partito. Ma non era una regola e nessuna ragazza è mai stata punita se i progetti delle famiglie fallivano. Non è la prima volta che un caso come quello di Samam si verifica: nel 2006 Hina Saleam e tre anni fa Sana Cheema sono morte in analoghe circostanze. Ma è la prima volta ad emergere all’attenzione del dibattito pubblico seppure in ritardo. Così inizia un articolo di commento all’agghiaccciante vicenda di Saman, Maria Felice Pacitto, psicoterapeuta e filosofa della mente.
E il caso è stato portato anche in Senato e all’interno della Commissione sul femminicidio e sulla violenza di genere. Qualche partito anche si è mobilitato. Ci si interroga, ora, se la normativa a tutela di donne straniere sia sufficiente e se quella esistente sia stata applicata appieno. Ma è il ritardo sulla questione dei matrimoni forzati ad essere incomprensibile ed ingiustificabile in un paese sempre pronto a scendere in piazza, a denunciare femminicidi, violenze, e qualsiasi forma di prevaricazioni contro le donne. Ora si vuole vedere la morte di Samam come la conseguenza di una mancata integrazione culturale di una famiglia pakistana rimasta chiusa e isolata, come in una bolla, fuori dello spazio e del tempo, reiterando schemi di comportamento usi, costumi, regole ataviche della cultura di origine. Un piccolo mondo claustrofiliaco, impenetrabile, senza nessuna possibilità di cambiamento ed evoluzione per le donne asservite alla legge dei padri, gli unici ad avere un contatto con il mondo esterno. C’è da chiedersi quante Samam ci siano segregate e assoggettate a regole e costumi, fuori del tempo– scrive Pacitto- che negano soggettività e dignità di persona. C’è da chiedersi se l’integrazione sia sempre possibile e come ripensare norme e regole di ingresso e permanenza di famiglie appartenenti ad altre culture per evitare che tragedie come quella di Samam possano ripetersi. Questioni non di poca portata che riguardano i temi dell’etica, del diritto e della democrazia, su cui da tempo si dibatte, continua.
Ma qualche altra considerazione sulla inadeguata e mancata presa in considerazione della questione dei matrimoni forzati e sulle condizioni di vita di adolescenti e giovani donne immigrate va fatta. Una vasta ricerca, nell’ambito dello studio dei fenomeni empatici e dei comportamenti altruistici e prosociali, evidenzia come esistano bias mentali (chema mentale forma di distorsione della valutazione causata dal pregiudizi che inducono a prenderci cura degli altri e dei loro problemi se essi sono simili a noi, se condividono i nostri sistemi di credenze, i nostri usi e costumi, analoghe situazioni di vita. Siamo cioè più empatici e sensibili nei confronti di chi ci è più vicino culturalmente e vive situazioni in cui potremmo trovarci anche noi. Il dramma dei matrimoni forzati, delle adolescenze negate e spezzate, non lo vediamo, non lo percepiamo perché estraneo alla nostra mentalità e quotidianità, troppo lontano da noi. Alcune caratteristiche del nostro funzionamento mentale- conclude la psicoterapeuta- non ci rendono abili ad affrontare le questioni e le emergenze che un mondo globalizzato ci pone. È anche di questo nostro comportamento e di questa distanza mentale e di empatia che la povera Samam è stata vittima”.
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