Diego Giorgi
“‘Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue’. Questo ci racconta l’ultima delle ragazze che avrebbe dovuto entrare con il nostro gruppo e che purtroppo è rimasta fuori dal gate dell’aeroporto di Kabul durante l’esplosione suicida”. E’ il racconto a caldo che arriva dal Cospe, ong fiorentina titolare di diversi progetti in Afghanistan fino al 2019.
L’attentato, si spiega, “arriva al culmine di giornate tragiche in cui abbiamo cercato di portare in salvo quante più persone possibile tra i nostri collaboratori, collaboratrici e le loro famiglie”. Dopo l’esplosione, quindi, “abbiamo saputo finalmente che buona parte di loro sono finalmente riusciti ad entrare in aeroporto, spostandosi proprio da quell’Abbey gate dove ora si contano le vittime”.
Si tratta “di un gruppo di circa 30 persone, tra cui una decina di bambini. Tra loro anche il gruppo delle calciatrici partite da Herat lunedì mattina all’alba, e delle cicliste, seguite in Italia dall’associazione Road to Equality. Ora sono al sicuro, con cibo e acqua e in attesa di un volo per arrivare in Italia di cui però ancora non abbiamo notizie certe”.
Come Cospe, in coordinamento con Aoi e insieme ad altre ong “con le quali abbiamo costituito un’unica lista di persone da evacuare, abbiamo tenuto tutto il tempo contatti con le persone lì fuori comunicando costantemente la loro posizione ai parà dei Tuscania che da dentro l’aeroporto gestiscono le operazioni e alle altre autorità”, come il ministero della Difesa e degli Esteri, che dall’Italia seguono “gli sviluppi dell’evacuazione e che ringraziamo per il grande loro svolto insieme al console e al corpo dei paracadutisti”.
La difficoltà dell’ingresso nello scalo, “presidiato dai talebani e affollato da quanti stanno tentando di fuggire in ogni modo, ha purtroppo scoraggiato alcuni membri del gruppo che non hanno resistito a ore di insonnia, di fame, di sete e a condizioni igieniche precarie, senza servizi e immersi per metà del tempo nel canale che separa la strada dall’ingresso vero e proprio, il ‘dirty river’ di molti messaggi. Molti hanno dovuto rinunciare, altri si sono persi nella folla“.
La deadline del 31 agosto “imposta dagli Usa per l’uscita dal Paese, le minacce dei talebani che stanno aumentando i controlli alle vie di accesso all’aeroporto e le violenze verso coloro che cercano di lasciare” l’Afghanistan (“Hanno ucciso tre persone davanti ai miei occhi”, ha scritto una ragazza del gruppo), “ci hanno spinto a incoraggiare i nostri contatti ad affrontare questa odissea per imbarcarsi il prima possibile. Ora però auspichiamo che anche tutti coloro che non ce l’hanno fatta, proprio i più deboli e a rischio della vita nell’Afghanistan dell’Emirato, possano raggiugere l’Italia o l’Europa grazie a corridoi umanitari sicuri”.
Sono “attivisti e attiviste, giornalisti indipendenti, avvocate, collaboratori a vario titoli con le organizzazioni internazionali. Sono le donne, rappresentanti di minoranze e le voci della società civile e tutti coloro che hanno lavorato per un’Afghanistan diverso nelle scuole, nella sanità, nella società e si sono da sempre opposti del regime totalitario e del pensiero integralista dei talebani. Oggi dobbiamo garantirgli sicurezza e libertà”.
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