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Cosa significa il quarto comandamento, onora tuo padre e tua madre?

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Quarto comandamento: Onora il padre e la madre. Ha qualcosa di particolare o almeno di diverso, questo comandamento. Perché viene dopo i tre dedicati a Dio ed agli aspetti principali del comportamento dell’essere umano verso il suo Signore. Ma viene prima di tutte le proibizioni, di   quel che  non si deve fare. Ed è spiegato nei dettagli in un intero capitolo nel libro del Siracide, Bibbia, Antico testamento:  …

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Il Signore infatti ha glorificato il padre al di sopra dei figli e ha stabilito il diritto della madre sulla prole.’  (Sir 3,2)
E’ anche uno dei comandamenti diciamo più facili: tutti vogliamo bene ai genitori, siamo ben disposti verso di loro, con qualche eccezione ma questa è la situazione media. Si potrebbe dare per scontato. Ma non è così: l’esortazione, anzi il comando “onora il padre e la madre” è inciso nella pietra, ma anche nel più profondo dell’essere umano.

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E’ il riconoscimento di un valore enorme, il rispetto e l’amore verso chi ti ha dato la vita fisica, attraverso cui potrai arrivare alla vita spirituale.  Parliamo di quanto abbiamo di più prezioso, la vita. Amare i propri genitori quindi fa parte delle prerogative dell’essere umano. E inevitabilmente, da anziani o vecchi, rimpiangeremo di non averli amati abbastanza.

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Chi onora il padre espia i peccati, chi onora sua madre è come chi accumula tesori.” (Sir 3,3)

Di quali tesori parla, la Bibbia? non evidentemente di quelli materiali. Ma di quale padre e quale madre parla, il testo? solo dei genitori naturali? o anche di chi ha saputo insegnare la direzione verso lo spirito? Siamo esseri influenzabili: il nostro “io” (cioè l’ego ) è pieno di ansie e di timori, cerca costantemente di non essere coinvolto nei problemi, spesso non visti come opportunità di crescita, senza peraltro riuscirci. Quindi l’educazione anche semplice, anche buona, spesso non riesce a supportare i dirupi ed i burroni della mente e del cuore. E allora si cerca , se veramente se ne sente il bisogno, il Maestro. Gesù. E’ quello che si invoca nel bisogno. A volte, si possono incontrare persone che sanno toccare il cuore, e le loro parole affiorano indicando una strada, fatta di silenzio e di preghiera. Sono gli istruttori, le guide, non maestri, perché di Maestro ce n’è uno solo, ma persone almeno umane fino al midollo, capaci di prendersi a cuore la sorte altrui. Prima di tutto quella del padre e della madre, i più prossimi.  

 

Chi teme il Signore, onora il padre e serve come padroni i suoi genitori . (Sir 3,7)

E’ abbastanza chiaro che onorare i genitori vuol dire aumentarne il prestigio. Vale quindi per tutti coloro che vengono onorati.  I santi, con le loro vite, i loro discepoli, fortunati per aver conosciuto una guida spirituale, ma anche a distanza, nel tempo e nello spazio, una parola può salvare una vita…tutti posso essere destinatari e mittenti di quell’amore che si sprigiona dalla paternità e maternità.  Ricordando sempre le precise parole di Gesù: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18,20)

Il sentiero è percorso: dall’onore verso padre e madre naturali , agli istruttori ed amici veri, anche del passato, che ci  hanno guidato, al Maestro Gesù  che ci attende. Tutti da onorare.

Anche questo è lavoro: da svolgere con attenzione e precisione.

 

A svegliarmi era sempre il tocco di mia madre, dolcissimo, la carezza delle sue dita sulla fronte, un atto antico che sapeva di controllo della febbre, quando ancora avere febbre alta significava morte certa.   Dita che passavano veloci sui capelli, sulle orecchie, sugli occhi ancora chiusi, mentre la sua voce incitava al risveglio, ma senza asprezza nè fretta: solo le madri sanno svegliare i figli a quel modo. Giù, in cucina, c’era il latte caldo che attendeva nella scodella, qualche biscotto vicino, a volte il barattolo della marmellata fatta in casa, aperto e profumato. Sul tavolo c’era già,   sporco di  vino, il bicchiere a cui aveva bevuto mio padre, prima di iniziare la giornata di lavoro bisognava bere un buon bicchiere di vino, era proprio consuetudine.  Il resto era un susseguirsi di movimenti conosciuti e automatici, anche se lievemente intrisi di sonno, fino ad arrivare nel campo, dove il mio compito era quello di mantenere le mucche nel solco, mentre mio padre arava il terreno con un aratro a doppio vomere, ribaltabile ad ogni fine fine solco. E se mi lasciava guidare l’aratro, a me che arrivavo con la testa all’altezza dei manici, era un’onore, mi sentivo grande, mi sentivo utile, avevo dato il mio contributo lavorativo. Questo chiedevo, quando tornavo a casa: ma sono stato utile? sapevo che la risposta era sì, che avrei ricevuto un abbraccio, un bacio, uno scappellotto, qualcosa di affettuoso insomma. Era quella la ricompensa. Prima di indossare la maglietta di lana blu scura, fatta da mia madre,  che era la divisa dei ragazzi delle elementari dalla terza  alla quinta. Perché dopo quel paio d’ore nel campo con mio padre e le mucche, si andava a scuola: alle otto e trenta tutti dentro, iniziava il lavoro vero…

(da “Ricami dell’anima” di Giuseppe Valesio)

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